domenica 30 ottobre 2011

This Must Be The Place


Spesso si resta immobili tanto a lungo da credere che quello che vediamo sia ciò che davvero abbiamo davanti al naso. Ma non è così. Non serve molto, qualche millimetro talvolta, può cambiare un intero punto di vista.
Dobbiamo essere grati a chi ci muove. Soprattutto a chi ci muove da dentro.
Cheyenne è una rock star cinquantenne in pensione ‘forzata’ da troppi anni. Vive a Dublino negli agi di una vita che gli consente di passare nell’ozio più totale le sue giornate senza il minimo bisogno di lavorare, e se la lascia scivolare addosso senza opporre la minima resistenza.


La sua è una routine quotidiana che si ripete da anni sempre uguale: si sveglia, fa la spesa al centro commerciale, prende un caffè con un amica, torna a casa e infila nel microonde una pizza surgelata, aspettando che cuocia seduto nella monumentale cucina che reca a caratteri cubitali la scritta cuisine, tanto per non sbagliarsi.
Tutto è noia per Cheyenne, che è caratterizzato, oltre al trucco-parrucco da rock star dura, di quelle che ‘spaccano’, da una vocina infantile dalla cadenza perennemente strascicata, e dal fatto di non riuscire a fare più di un metro senza doversi sorreggere a qualcosa, che sia il carrello della spesa o il manico della valigia.


Cheyenne è, insomma, la personificazione della monotonia. Una monotonia che fa terribilmente a pugni col suo aspetto da anticonformista, di quelli che vivono sempre sopra le righe. Un aspetto che lo tiene ancorato, nonostante il passare degli anni, ai tempi della gioventù. O meglio, dell’adolescenza, quando il suo modo di apparire aveva un solo significato: ribellione. Ora però Cheyenne è quanto di più lontano possa esistere da un ribelle: è un marito innamorato e fedele da oltre trent’anni, e da venti non prende più in mano uno strumento musicale, trascinandosi in giorni di tedio che lui scambia per disagio esistenziale, convincendosi di essere afflitto da una seria forma di depressione.


In realtà, quello che manca a Cheyenne, è una ragione per crescere. Perché lui, questa cosa del crescere, non l’ha mai affrontata, come confermano le sue unghie laccate di nero e il pesante strato di matita che ogni mattina, diligentemente, applica alle palpebre ormai cascanti da cinquantenne. Conciato in questa maniera spaventa le clienti del supermercato in cui ogni mattina si reca a fare la spesa, salvo poi vendicarsi bucando loro il cartone del latte, esattamente come farebbe un bambino.
La notizia della morte improvvisa del padre, a New York, cambierà le carte in tavola e per Cheyenne arriverà finalmente il momento di prendere in mano il proprio destino.
Giunto sul posto, infatti, l’ex Rock Star viene a sapere che il padre, per tutta la vita, aveva invano dato la caccia ad un tedesco che era stato il suo aguzzino nel campo di concentramento di Auschwitz, e , incomprensibilmente, vista la sua verve e le sue pressoché nulle capacità investigative, Cheyenne decide di portare a termine la missione.


Il viaggio che compirà lungo gli Stati Uniti sulle tracce di quest’uomo acquisirà valenza di viaggio interiore, per Cheyenne. Un modo per confrontarsi con realtà diverse, per affrontare i demoni del passato, per riconciliarsi con la memoria del padre, un padre che lui ha sempre creduto, a torto, incapace di provare dell’affetto per il proprio figlio.
E sarà costretto a crescere.
L’uomo che farà ritorno a Dublino, dopo questa traversata, sarà un vero uomo.
L’uomo che per anni si è rifugiato dietro la maschera del personaggio, crogiolandosi nella paura di crescere e affrontare la realtà.
Perché la vita vera è fatta di questo: di persone che affrontano la realtà, per quanto dura o dolorosa possa essere.
Di persone che arrivate ad un certo punto, lasciano andare il cordone di sicurezza (o il manico della valigia) e camminano da sole, a viso aperto.
Senza trucchi, senza inganni, maschere, ceroni e chi più ne ha più ne metta.
Perché bisogna crescere e andare avanti.
Questo è vivere.

Ho trovato questo film di una bellezza e di una poesia incredibili, e credo di non esagerare se dico che è veramente il film più bello visto da molti mesi a questa parte.
La storia, nella sua semplicità, è capace di toccare corde profonde e ti resta impressa dentro, affrontando tematiche diverse quali l’olocausto, il rapporto padre-figlio, il bisogno che abbiamo tutti di avere una ragione per cui vivere, qualcosa che ci spinga avanti.
Simpatizzare col personaggio di Cheyenne, poi, è cosa immediata: per quanto strampalato e lontano da ognuno di noi possa apparire, in realtà è un personaggio incredibilmente umano, che dispensa vere e proprie perle di saggezza nell’arco dell’intero film. Dei bambini ha conservato l’aspetto più limpido e pulito, quello stupore che gli permette di guardare ancora il mondo con incredulità e meraviglia, nonostante le disillusioni e gli errori accumulati negli anni.


Nel panorama del cinema italiano avevamo bisogno di un film così. Un film che si discostasse dalle commedie-pattumiera, dai cinepanettoni e i film comico-demeziali che ci travolgono a vagonate ogni benedetto anno.
Un film dalla regia brillante, fatta di dettagli suggestivi (il filo del telefono che si tende, la sigaretta che si consuma tra le dita, i primissimi piani sugli sguardi), di inquadrature mozzafiato sugli incredibili paesaggi USA, con una stupenda colonna sonora e sì, fatta anche di bravi attori, Sean Penn su tutti, che da solo regge praticamente tutto il film.


I difetti, naturalmente, non mancano. Alcune sequenze sono effettivamente troppo lunghe (penso alla scena in cui David Byrne canta, appunto, This Must Be The Place) o slegate tra di loro, rendendo la narrazione poco omogenea in alcuni punti.
Ma sono convinta che un film, prima di tutto, vada visto ‘di pancia’.
E Cheyenne, nella sua lentezza, nella sua iniziale incapacità di evolversi, staccandosi da un passato che non gli appartiene più, nelle sue peripezie, a tratti quasi oniriche (penso alla scena dell’indiano nel pickup), a tratti decisamente comiche, nelle sue mille espressioni, che poi in realtà è sempre la stessa, è bellissimo.
E questo film sa davvero emozionare, perché è intriso di umanità.


martedì 25 ottobre 2011

La scrittrice cucinava qui: Colette e la torta di zucca


Nulla mi rende di buon’umore quanto i regali di compleanno, specie se inaspettati.
Specie se fatti su misura.
Quando qualcuno regala un libro, è perché conosce una persona, o crede di conoscerla.
Se il libro è azzeccato, probabilmente anche l’idea che si ha di quella persona lo è.
Nulla ti smaschera quanto un libro.
Questo regalo di compleanno, decisamente azzeccato, è opera delle mie sorelle. Del resto, se non ti conosce una sorella…
Il libro si intitola ‘la scrittrice cucinava qui. gusti, ricordi e ricette di 10 grandi autrici’, e, lo confesso, devo ancora praticamente iniziare a leggerlo.
Ma l’idea mi intriga: dieci scrittrici (Virginia Woolf, Simone De Beauvoir, Elsa Morante, Karen Blixen, Agatha Christie, Grazia Daledda, Harriet Beecher Stowe, Gertrude Stein, Pamela L. Travers, Colette), dieci modi di interpretare il cibo. Perché cucinare è un po’ come scrivere: si dà forma a qualcosa, lo si insaporisce, lo si personalizza fino a raggiungere il gusto desiderato.
Quel piatto racconterà qualcosa, proprio come una storia scritta con amore.
Per ora, l’unico capitolo che ho letto con grande attenzione, è quello sulla scrittrice Sidonie Gabrielle, da tutti conosciuta come Colette.


Colette nutriva per il cibo una vera e propria forma di culto: lo venerava. Le radici di questa passione vanno ricercate nella sua infanzia campagnola in Borgogna, e nel rapporto di profondo affetto che la legava alla madre Sido. Colette cresce tra i densi profumi degli arrosti e delle conserve, delle scorze di limone e delle patate cotte nella cenere, nella grande cucina in cui luccicano le pentole di rame e il profumo del pane appena sfornato si sprigiona dall’antica madia. Sono i sapori semplici, quelli che predilige, quel gusto paesano, casereccio, che le mancherà come l’aria nella nuova vita chic che l’attende a Parigi, tra serate mondane e amicizie d’interesse, al seguito di un marito la cui indifferenza la renderà instabile e depressa.
Tra i doni che Colette erediterà da sua madre, oltre all’amore per il cibo e la cucina, c’è soprattutto quello per la natura: Sido elargisce alla figlia tutto il suo sapere su piante, frutti ed erbe, cosicché orti, boschi e prati non hanno più segreti per la giovane Gabrielle, che coglie pesche e prugne mature, estirpa carote novelle, sbuccia castagne e sguscia fave e piselli.
Più avanti negli anni, quando Parigi si chiuderà intorno a lei come una prigione dorata, piena di frivoli divertimenti e di donne che per essere alla moda si nutrono con una foglia di insalata al giorno, Colette si ammalerà di nostalgia per questi profumi e sapori perduti, e inizierà a scrivere proprio per riempire un vuoto, colmare quella voragine rimasta attaccata ad un passato profumato come una torta calda appena sfornata.
La torta di zucche e mandorle, il piatto forte di Sido, da Colette rimpianto per tutta la sua vita.



'La cucina, la vera cucina, è fatta di chi assaggia, assapora, sogna un istante, aggiunge un filo d’olio, un pizzico di sale, una foglia di timo, da chi pesa senza bilancia, misura il tempo senza orologio, sorveglia l’arrosto con gli occhi dell’anima e mescola le uova, il burro e la farina secondo ispirazione, come una strega benigna. E i luoghi dove ciò che si compie fra il momento di mettere la pentola sul fuoco, il bricco, la marmitta e il loro contenuto, e il momento, pieno di dolce ansietà e di speranza voluttuosa, quando si scoperchia sul tavolo il piatto fumante, sono mistero, magia, sortilegio.' (Colette)



Tarte aux citrouilles et amandes
(torta di zucca e mandorle)


Ingredienti per 6/8 persone
500 g di zucca
50 g di mandorle spellate
150 g di zucchero
2 uova
4 tuorli
1 goccia di estratto di vaniglia
100 g di polvere di mandorle
60 g di burro
6 cl di crema di latte
1 cucchiaino da caffè di rhum
Sale e pepe

Per la pasta sablé:
250 g di farina
75 g di zucchero
90 g di burro morbido
2 tuorli
1 bustina di vanillina
1 pizzico di sale
3 cucchiai di acqua freddissima

Lavora con le fruste elettriche i tuorli con lo zucchero, unire il burro a pezzetti e la farina setacciata, la vanillina, il sale e infine l’acqua. Lavorare con le fruste fino a ottenere una sorta di sabbia e poi proseguire a mano. Impastare fino ad avere un composto liscio ed omogeneo. Formare una palla da avvolgere nella pellicola e lasciar riposare nel frigo per almeno mezz’ora.
Nel frattempo sbucciare e tagliare a pezzi la zucca e farla cuocere a vapore per circa 20 minuti. Lasciarla raffreddare. Far tostare le mandorle sotto al grill del forno. In un pentolino mettere a scaldare la crema di latte con la vaniglia e far raffreddare. Stendere la pasta sablé in una teglia di circa 22 cm di diametro, coprire il fondo con una manciata di fagioli secchi e infornare per circa 20 minuti. Passare al setaccio la polpa di zucca e, in una ciotola capiente, mescolare insieme le uova, i tuorli e lo zucchero. Aggiungere la zucca passata, la polvere di mandorle, la crema di latte, il burro ammorbidito, il rum, un pizzico di sale e uno di pepe. Mescolare bene. Eliminare i fagioli dal fondo e aggiungere le mandorle tostate, versare l’impasto e rimettere in forno per 15 minuti circa. Servire fredda o tiepida.


domenica 9 ottobre 2011

Jane Eyre di Cary Fukunaga : non convince fino in fondo


Jane Eyre è il mio libro preferito. Probabilmente basta questo per rendermi ipercritica e particolarmente esigente nei confronti di quanto tratto e/o ispirato al suddetto romanzo, perciò vi avviso: non sarò imparziale in questo giudizio.
La Jane Eyre di Cary Fukunaga, sceneggiata da Moira Buffini, non mi ha convinto. Non fino in fondo.
Il film si fa vedere, indubbiamente, ed è particolarmente godibile per quanto riguarda ambientazioni e costumi: l’Ottocento inglese rivive in ogni singola inquadratura, in ogni, magnifico, dettaglio.
L’innovazione del regista, che segue pedissequamente il romanzo senza mancare una virgola, sta nell’averne spezzato la cronologia, ricostruendola con lunghi flash back. Si inizia con la fuga di Jane da Thornfield e con la sua sistemazione di fortuna a casa di St. John Rivers e, per tutta la prima parte del film si oscilla tra passato e presente.


Viene accennata l’infelice infanzia della protagonista, orfana dei genitori e allontanata dalla zia che avrebbe dovuto prendersene cura, ma che spinta dall’egoismo e dal disprezzo la fa rinchiudere nel rigido collegio di Lowood, famoso per la severa disciplina con cui vengono trattate le alunne. Qui c’è solo un rapido accenno all’amicizia che lega Jane ad Helen Burns, aspetto che invece meritava di essere approfondito per come fa risaltare quella che è l’essenza di Jane: il carattere indomito, la capacità di creare un legame profondo anche quando significa andare contro tutte le regole, l’estrema dedizione e la tenacia nelle proprie idee. Fukunaga non ci mostra che uno scorcio di questa parte piuttosto consistente di romanzo, e personalmente non condivido appieno questa scelta. Logicamente, qualcosa andava tolto, ma sembra che in fondo il regista abbia scelto di focalizzarsi unicamente sul rapporto tra Jane e Rochester, tralasciando tutto il resto.


E’ vero, Jane Eyre è anche una storia d’amore. Ma soprattutto è la storia di una donna di incredibile temperamento e indipendenza, assolutamente anticonformista per i tempi in cui visse. Una donna che non aveva nessuna di quelle qualità (soldi ed avvenenza) che, ai tempi, ma forse (tristemente) anche al giorno d’oggi, le permettevano di fare strada. Ma aveva un cervello e abbastanza tempra morale per non soccombere davanti agli ostacoli che la vita le poneva. Una donna che, messa davanti ad una scelta ‘scomoda’, preferisce perdere tutto pur di non perdere se stessa. E questo, credo sia il più grosso insegnamento che ogni ragazza, da duecento anni a questa parte, possa trarre da un personaggio del genere.
Ma torniamo al film.


L’arrivo a Thornfield e il conseguente inserimento come istitutrice (Istitutrice, traduttori, Jane è l’istitutrice, non la governante!) della piccola Adéle, pupilla e forse figliastra del signor Rochester, padrone della cupa ed isolata dimora, cambiano la vita di Jane. Come dicevo, le ambientazioni sono sublimi, ma davvero troppo, troppo cupe. Non bastano corridoi bui e candele dalla fievole fiamma a creare un’atmosfera gotica, soprattutto se poi si sceglie volutamente di tagliare le gambe a qualsiasi altro elemento di suspence all’interno della casa.
Sì perché Thornfield e il suo proprietario, che nel frattempo si è invaghito della piccola istitutrice, nascondono un terribile segreto, ma io credo che, senza aver letto il libro e aver visto altre versioni cinematografiche, sia davvero difficile capire che qualcosa si cela tra quelle tetre mura.


Dov’è Grace Poole, forse la presenza più inquietante all'interno del palazzo, che insospettisce e terrorizza Jane fin dall’inizio? La sua è una semplice apparizione nel finale. Così come la stessa Bertha, che si limita a qualche fioca risata. Non ci sono sguardi ambigui tra i domestici, ne strani avvenimenti scuotono l’equilibrio del palazzo, se si escludono l’incendio nella stanza di Rochester, che comunque passa molto in sottotono e l’aggressione a Richard Mason, anch’essa piuttosto sbrigativa.


La pellicola di Fugunaka perde completamente di mordente superata la prima metà. E questo appiattisce, a mio parere, anche l’avvicinamento tra Jane e Rochester.
Le scene sembrano spesso didascaliche. Non si avverte la passione, il senso del proibito, la tensione che intercorre tra di loro. La scena in cui, più delle altre, ho notato questo livellamento di emozioni è la scena della fuga di Jane dalla sala in cui Blanche sta intrattenendo Rochester con frivole chiacchiere e malignità nei confronti delle istitutrici. Lui la segue, ma tra loro non c’è quel sofferto e talvolta esasperato gioco del gatto e del topo che riempie di pathos il libro. Lui è fin troppo gentile e premuroso e lei fin troppo fredda.


Edward e Jane non sono così. Tra loro c’è una scintilla sempre sfrigolante. Lui la stuzzica e lei replica a tono, lui la mortifica e lei si chiude a riccio, lui la cerca e lei indietreggia. E’ un gioco al massacro. Lui ha un passato troppo doloroso alle spalle per riuscire a fidarsi totalmente. Si muove verso di lei con sempre maggior curiosità, ma fondamentalmente protetto dietro la superiorità del ‘padrone’. Lei è forte, ben decisa a non soccombere a questi attacchi sempre più frequenti, atteggiamento perfettamente esplicato nel discorso esasperato, furioso, che gli rivolge poco prima che lui si dichiari: ‘Credete che potrei rimanere e non essere più nulla per voi? Credete che io sia un automa, un meccanismo insensibile? Che possa sopportare di veder strappato di bocca il mio pezzo di pane? Di veder gettato via dalla coppa il sorso d’acqua che mi è necessario per vivere? Credete, perché sono povera, oscura, brutta e piccola che io sia senza anima e senza cuore? Vi sbagliate! Ho un’anima come voi e un cuore forse più grande del vostro!


Questo qualcosa traspare chiaramente nella versione di Zeffirelli del 96.
Forse anche perché, a mio parere, i due attori erano più ‘in parte’. Lei, Charlotte Gainsbourg, decisamente più ricca di espressione rispetto alla bellissima, ma piuttosto smorta Mia Wasikowska. Lui, William Hurt, poco adatto per via dei colori chiari, ma perfetto nell’atteggiamento cinico e fortemente ironico che riserva a Jane. E’ più gentiluomo del Rochester portato sullo schermo dal fin troppo bello Michael Fassbender, ma in qualche modo anche più ‘sbruffone’, una maschera per celare i demoni che vivono nella sua anima.
Adoro questo personaggio!


Per concludere questa recensione, che alla fine, come temevo, si è tramutata in un divagare senza sosta sul capolavoro di Jane Eyre, il finale è probabilmente la cosa che ho digerito di meno.
Buttato lì, un po’ così, tanto da lasciare chiaramente quella sensazione di voler ‘tagliare corto’.
Non mi sono alzata dalla poltrona del cinema esclamando ‘Wow!’, ne mi sono minimamente commossa o emozionata. Non è affatto un film da buttare, o da non vedere, anzi, ha sicuramente molti pregi. Ma la scintilla non è scoccata e, per questo, credo che ancora una volta la mia versione preferita resterà quella di Zeffirelli: per i personaggi, per le emozioni, per le ambientazioni, per le musiche (sublimi) e per l’incredibile e suggestivo uso dei chiari e scuri.
Perché le ombre non sono meno importanti della luce.

Il trailer è molto convincente. Peccato che alcune scene non compaiano proprio nel film...


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