giovedì 29 dicembre 2011

Madrid e...Buon anno!


Auguro a tutte le persone che seguono questo blog, ma anche a chi si trova a passare di qua per caso, di passare uno splendido Capodanno!
Io sono in partenza per Madrid, una città in cui non sono mai stata...
Se qualcuno ha dei consigli da darmi, sarò naturalmente felicissima di ascoltarli!
Per adesso il mio itinerario comprende:

1) Palacio Real
2) Plaza Mayor
3) Museo del Prado
4) Museo Reina Sofia
5) Malasana (el barrio de las meravillas)
6)Puerta del Sol
7) Casa museo di Cervantes
8) Parque del Retiro
9) Mercato del Rastro
10) Gran via

Ma in cinque giorni spero di riuscire a vedere molto di più! Aspettatevi dei resoconti molto dettagliati^^
Tanti auguri per uno splendido 2012!! (Maya e gufate a parte, eh!)


venerdì 16 dicembre 2011

Tanti auguri a...Piccolo Sogno Antico!


Lo so, lo so...
Oggi la maggior parte dei blog a tema storico/culturale festeggiano compleanni ben più importanti: Jane Austen e Ludwig van Beethoven, per fare qualche esempio illustre.
Qua invece si festeggia il primo anno di Piccolo Sogno Antico, nato per il bisogno di condividere una passione, un'idea, un pensiero che sentiva la necessità di tradursi in lettere, che poi, sono tra le cose che più ama questo blog. Le lettere, specialmente quelle che profumano d'inchiostro. Le parole scritte, le parole che formano frasi, le frasi che ricoprono le pagine dei libri. Che creano le storie. Che creano la Storia.
Un doveroso grazie a tutte le persone che, in questo primo anno, hanno condiviso questa passione, e contribuito con i loro pensieri. Se il blog è cresciuto, seppur nel suo piccolo, il merito è anche vostro^^
E per festeggiare questo primo traguardo, quale modo migliore di un salto indietro nel tempo sulle tracce dei 7 post che, nel bene e nel male, hanno fatto la storia di Piccolo Sogno Antico?
Ringrazio Federica che mi ha passato il 'testimone' con questa simpatica catena!

Il post più popolare


Così parlò Blogspot: il mio post più cliccato è quello sui raffronti tra il bellissimo ed esteticamente raffinato film di Jane Campion, Bright Star, e le opere dei grandi maestri dell'arte a cui, suppongo, si sia ispirata la regista. Devo ammettere che mi sono molto divertita a fare ricerche per questo post, che unisce due delle mie grandi passioni: l'arte e il cinema.

Il post più controverso


Jane Eyre, sì, proprio lei, l'eroina letteraria protagonista di quello che è, in assoluto, il mio libro preferito. Motivo per cui, nonostante ne riconosca i pregi, il film di Fukunaga non ha toccato nessuna corda della mia anima. Peccato davvero, perchè avevo grandi aspettative su questo film, ma non sono riuscita ad emozionarmi per la sua insipida Jane, nemmeno per sbaglio.

Il post il cui successo mi ha stupita

Ebbene sì, ho scritto diversi post su Parigi, dopo il mio ultimo viaggio nella Ville Lùmiere, ma non mi aspettavo che ad avere più successo fosse il post sul Pére Lachaise! A giudicare dai commenti al post, non sono l'unica con la vena macabra...
E' un posto che ho amato subito, per l'atmosfera decadente e tipicamente gotica che lo caratterizzava nella fredda e solitaria mattina di gennaio in cui l'ho visitato. Per non parlare di Victor Noir, il misconosciuto giornalista francese la cui fama, postuma, va fatta risalire, in parte, proprio al suo monumento funebre!

Il post che non ha avuto il successo che meritava

Questo post, che ho scritto con grande entusiasmo, è rimasto praticamente ignorato per diversi giorni. Mi è dispiaciuto, devo ammetterlo, perchè ho trovato, e trovo tutt'ora, che questo sia il miglior film visto da molti mesi a questa parte. E' indubbiamente un post inusuale per questo blog, più orientato verso altre epoche, ma non potevo non scriverlo, This Must Be The Place mi è entrato nel cuore. Consiglio a chi non l'ha ancora visto di vedere assolutamente questo film: non lasciatevi ingannare pensando che 'non è il vostro genere'. Prima di tutto perchè non si dovrebbe ragionare 'per generi', e secondo perchè credo sia praticamente impossibile non rimanerere incantati dal protagonista...

Il post di cui vado più fiera

Sì, insomma...Ne vado fiera perchè è con questa ricetta che ho vinto il contest di Federica 'L'ora del tea' e, per me che ai fornelli ho sempre fatto peggio che pena, è stata una bellissima soddisfazione! La ricetta per fare queste madeleines, oltretutto, l'ho un po' 'inventata', e il risultato non è stato affatto male!

Il post più bello

Di tutti i miei post, questo rimane il mio preferito: adoro Ophelia, la sua fragilità, la sua follia, la sua tragica e malinconica fine...
E non sono l'unica. Ophelia è il personaggio Shakespeariano più rappresentato. Io ho voluto renderle omaggio così.

Il post più utile

A livello di utilità, credo sia questo il miglior post: un po' di storia, qualche splendida citazione e tanti meravigliosi quadri sulla bevanda più amata di questo blog!

A questo punto dovrei a mia volta passare questa catena ad altre sette persone, ma mi rendo conto che può essere impegnativo trovare il tempo di farla perciò chi passa di qua e la trova interessante si senta libero di postarla a sua volta!

martedì 13 dicembre 2011

Il giro di vite: the others


"...Naturalmente ci sono gli altri."
"Ci sono gli altri - ci sono veramente gli altri", dissi a mia volta
.
(Il giro di vite, Henry James)


Volendo citare un autore a me molto caro, nonché indubbiamente un caposaldo della letteratura dell’orrore (ma non solo), genere da me particolarmente apprezzato, potrei iniziare a parlare del Giro di vite di Henry James così:

‘I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono.’

La frase, per inciso, è di Stephen King. Uno che di certo sa il fatto il suo e che, probabilmente, con i suoi demoni ci ha convissuto a lungo, cercando di esorcizzarli con carta e inchiostro.
Henry James, quasi certamente, non era diverso. La dimostrazione è proprio il suo più celebre racconto di fantasmi (ne scrisse molti), The turn of the screw.
Ma se pensate che questa sia una semplice storia di fantasmi, beh… vi sbagliate. Stephen King ci aveva visto giusto, e non per niente l’ha definito uno dei più inquietanti e riusciti racconti dell’orrore. E se lo dice lui, non certo un novellino del genere, dobbiamo crederci.
Il punto di forza dell’opera di James, quello che la rende così terribilmente sinistra, risiede soprattutto nell’inspiegabile vaghezza che, pagina dopo pagina, lascia intuire i fatti al lettore, senza tuttavia dargli la minima certezza che le cose stiano andando esattamente così. A monte di questo ‘disturbo’, di questa visione falsata della realtà vi è l’io narrante, la voce della protagonista, che potrebbe dire il vero così come, al contrario, potrebbe essere vittima di un’allucinazione in grado di offuscarne la mente.
Ma veniamo al racconto.


I fatti iniziano, come ogni buona storia di fantasmi che si rispetti, davanti ad un camino nella fredda sera della vigilia di Natale, dove il ‘solito’ gruppo di amici un po’ sbronzi decide di spassarsela raccontandosi storielle da brivido. Dopo due o tre racconti piuttosto scadenti, il solito guastafeste, per nulla impressionato, decide di terrorizzare sul serio i presenti rivelando di essere a conoscenza di una storia che di certo avrebbe tolto loro il sonno per molte notti.
La storia in questione, però, non può essere raccontata nell’immediato: si tratta, infatti, di una storia scritta dalla donna che visse i fatti in prima persona una quarantina di anni prima, morta da almeno vent’anni. Nell’attesa che il plico contenente il prezioso manoscritto giunga loro, Douglas (il guastafeste) intrattiene i suoi ospiti con qualche anticipazione sulla protagonista del racconto, rivelando che si trattava dell’istitutrice di sua sorella, una donna dalla conversazione brillante e di grande acume. Questo particolare, apparentemente privo di importanza, è in realtà il perno su cui ruota l’intera vicenda: come non fidarsi di una narratrice tanto brillante?
Il giudizio che Douglas fornisce sulla protagonista (che rimarrà sempre senza nome) influenza il lettore dal principio, per minarne, in seguito, tutte le certezze.


La storia in prima persona inizia quando la donna, un’istitutrice appena ventenne, piena di sogni romantici e per nulla avvezza alla vita, accetta il posto di lavoro offertole ‘dall’affascinante gentiluomo di Harley Street’: dovrà occuparsi dell’educazione dei figli del suo defunto fratello, confinati nella sua casa di campagna, Bly, e non disturbarlo per nessun motivo. La ragazza, ammaliata da quest’uomo misterioso ed intrigante, si assume l’impegno con grande senso del dovere. L’ultima cosa che vuole è deludere le aspettative del padrone e questo inizia a procurarle un iniziale stato di ansia. Un’ansia che inizierà presto a tramutarsi in apprensione, inquietudine, timore…
Ma appena giunta alla tenuta di Bly, le sue paure vengono dissipate: la casa è immersa in un giardino fiorito e rigoglioso, il sole splende alto nel cielo, la servitù si dimostra particolarmente cordiale e la sua pupilla, Flora, è una bionda creatura celeste. La ‘più bella bambina’ che l’istitutrice abbia mai visto. Le premesse per un classico racconto gotico (nebbia, oscurità, case decadenti) svaniscono nel nulla, ma anche questo è un espediente di James. Rendere inquietante il reale, l’ordinario, persino una primaverile giornata di sole: questa è la vera sfida.
In poco tempo, infatti, la serenità della protagonista si sbriciola come un castello di sabbia: la notte non dorme, tenuta sveglia da strani rumori e ambigui pensieri: perché la governante, la signora Grose, si è dimostrata tanto felice di vederla? Ma soprattutto perché ha cercato di nasconderlo?


L’ansia ritorna, alimentata ora anche dal fatto che Miles, il fratello di Flora, è appena stato espulso dal collegio in cui studiava per un non meglio precisato ‘comportamento sconveniente’. Da questo momento lo stato mentale della protagonista subirà svariati colpi, a partire dalle misteriose visioni che inizia ad avere e che si rivelano essere gli spettri di due defunti domestici: Peter Quint e Miss Jessel. Due depravati, a quanto racconta la signora Grose, che vivevano una tresca proibita in modo piuttosto esplicito e sono morti in circostanze misteriose. Inizialmente sembrerebbe che l’istitutrice sia la sola a vederli, ma presto subentrerà l’influenza che gli spiriti paiono avere sui bambini, come se volessero corromperli, possederli. Da questo momento nulla sarà più certo.


L’istitutrice si scinde: è una donna forte che cerca di affermare il bene sul male, tentando di proteggere Miles e Flora dal male rappresentato dai due spettri, o piuttosto una persona fortemente disturbata che riversa angoscia e frustrazione sessuale sui due ignari bambini, soffocandoli con le sue ansie e le sue fobie?


La critica si è a lungo dibattuta, perché i fantasmi, nel Giro di Vite, che è la più celebre delle Ghost Story, potrebbero non esistere realmente, se non nella mente alterata della protagonista.
A voi la scelta, sembra dire James. E non si può fare a meno di chiudere il libro pervasi dall’orrore.
Il Giro di Vite è una vera storia di spettri, o solo l'ambiguo sprofondare nella follia di una donna resa paranoica dall'eccessivo carico di stress?
Da questa fortunata opera sono stati tratti svariati film, le immagini di questo post appartengono alla versione del 2003, dal titolo, appunto, ‘The turn of the screw’ del regista Tim Fywell, che stravolge la narrazione facendo parlare l’istitutrice da un ospedale psichiatrico in cui è stata rinchiusa dopo il tragico epilogo.


Una delle variazioni più riuscite del Giro di Vite è indubbiamente The Others, del 2001 del regista Alejandro Amenábar , che ribalta le parti con risultati sorprendentemente terrificanti. Da pelle d’oca.
Siete pronti a rimanere terrorizzati?



martedì 15 novembre 2011

Io, Baricco e i (suoi) libri


Intanto, mi va di parlare di libri, in un momento in cui non sembra più così importante dirsi quali sono belli e quali no, litigarne un po’, pronunciarsi. Più facile che lo si faccia coni film o con la politica. Eppure i libri sono ancora lì, a migliaia, e continuano a declinare una civiltà di piaceri pazienti che in modo piuttosto silenzioso collabora a ridisegnare l’intelligenza e la fantasia collettive. Tutto quel che si può fare per dare evidenza ad una simile liturgia mite, lo si deve fare. E allora eccomi qui a fare la mia parte. (A.Baricco, La Repubblica)

I libri.
Se dovessi scegliere una sola cosa, tra quelle create dall’uomo, non avrei dubbi, salverei i libri.
Che poi, sarebbe come salvare le storie. E le storie è ciò di cui siamo imbevuti. Dalla Notte dei Tempi, da quando i versi si sono tramutati in parole e i segni in un codice definito, chiamato scrittura.
Senza, saremmo perduti. O, più semplicemente, non saremmo ciò che siamo.
Pensate a cosa saremmo senza Omero, Dante, Shakespeare, Cervantes, tanto per citare i più ‘grandi’.
Ecco perché chi è in grado di raccontare una storia, una bella storia, è così prezioso.
C’è uno scrittore che, per me, lo è in modo incantevole. Coaì come incantevole è la sua scrittura.
E vorrei precisare che la parola ‘incantevole’ non è scelta a caso: i suoi libri sono favole. Leggere come farfalle, profonde come l’oceano, luminose come il mattino.
Lui è Alessandro Baricco. Ed è incredibile che non ne avessi ancora parlato.
Non voglio dilungarmi sulle numerose controversie che dividono chi lo apprezza da chi lo ritiene ingiustamente sopravvalutato.
Lui per me è Lo Scrittore. E, come quando ami troppo qualcuno, gli perdoni un po’ tutto...
Spero che, allo stesso modo, voi riuscirete a perdonare la mia scarsa obbiettività!
Questo post è dovuto principalmente al fatto che ultimamente la mia inesauribile voglia ‘di Baricco’, quella che, per la precisione, mi fa divorare tutti i suoi libri appena pubblicati nel giro di qualche ora e rileggere ad intermittenza quelli già pubblicati, anche solo una pagina o qualche riga di tanto in tanto, è stata finalmente placata da due lieti eventi.
Il suo nuovo libro, Mr Gwyn, e la sua nuova collaborazione con La Repubblica.
Ma andiamo per gradi. Troppo Baricco mi fa venire le palpitazioni.
Mr Gwyn, beh…che ve lo dico a fare? E’ da leggere. Non lo consiglio, lo impongo!
Vi riporto, di seguito, un pezzo della mia recensione già pubblicata su Anobii (ho tagliato la prima parte perché mi sono già ripetuta qua sopra. Divento ripetitiva quando si tratta di lui. Già.)


Si tratta di una manciata di pagine. Eppure, che siano una manciata di pagine davvero non importa: c’è tutto quello che serve.
Tutto quello che serve a renderlo un Libro indimenticabile.
Profondo, originale, commovente. Ci ho ritrovato il Baricco più bello, quello di Oceano mare e Castelli di rabbia, i miei preferiti in assoluto. Ci ho ritrovato il Baricco dei personaggi surreali e improbabili, quelli che hanno uno scopo nella vita, ed è sempre qualcosa di meravigliosamente assurdo: dipingere il mare utilizzando l’acqua dell’oceano, ogni giorno della propria vita; costruire una ferrovia che non curvi mai; importare bachi dal Giappone, quando in Giappone era proibito entrare; immaginare un circuito automobilistico che sia la narrazione esatta della propria vita…
Il Mr. Gwyn di questo romanzo appartiene a questa galleria di bizzarri ed eccezionali personaggi.
Scrittore di un certo successo decide, con l’inizio della storia, di pubblicare una lista di cinquantadue cose che mai più farà nella vita. L’ultima è scrivere libri.
E se è vero che siamo ciò che facciamo, Mr. Gwyn decide di essere altro.
Eppure in questo modo finisce per ritrovarsi in una situazione comune a molti: ciò che solo lo fa sentire vivo (scrivere) è ciò che potrebbe anche ucciderlo.
Perché se c’è una cosa che Mr. Gwyn sa fare, è proprio scrivere.
L’alternativa si presenta, inaspettata, in una giornata di pioggia battente, in cui il confuso Jasper Gwyn trova riparo in una galleria d’arte. L’idea arriva dopo una lunga riflessione davanti ad un dipinto: non gli dispiacerebbe, in effetti, fare ritratti.
Sì, ma ritratti scritti. Perchè lui non sa disegnare, ma sa scrivere.
Nasce così l’idea che diverrà presto una sfida. Perché i lavori che non esistono sono sempre una sfida quando qualcuno decide di farli.
E’ dunque possibile ritrarre qualcuno traducendolo in parole? Copiare le persone trasformandole in lettere?
Al fianco di Jasper Gwyn in questa, all’apparenza impossibile, impresa ci sarà Rebecca: assistente e cavia per il primo ritratto. Tra lei e il ‘copista di persone’ si creerà, col tempo, un rapporto speciale, e sarà proprio Rebecca, alla fine, a svelare il mistero che sta dietro la domanda iniziale: come si traspone una persona in frasi scritte?
Il finale, da solo, vale tutto il libro. Ma tutto il libro vale comunque la pena di essere letto. Più di una volta, possibilmente.
E’ un libro sui libri, questo. Su chi li scrive. Su chi ispira chi li scrive.
Su tutti noi.
Perché noi siamo le storie.
E adesso dite pure che Baricco è un borioso pallone gonfiato.
Ma vi assicuro che senza favole come questa le giornate sarebbero un po’ più grigie.



E adesso passiamo ai suoi articoli sulla Repubblica.
A partire dalla domenica scorsa, e per altre quarantanove domeniche, Alessandro Baricco parlerà di libri. O meglio, di un libro.
Un libro a domenica. Cinquanta libri. I suoi cinquanta libri più belli degli ultimi dieci anni.
Inutile dire che ho già pronto un raccoglitore in cui archiviare i suoi articoli!
Perchè se è sempre bene accetto qualcuno che ti consiglia un libro spiegandoti cosa lo rende sensazionale, facendoti venire quella voglia immediata di capire di che si tratta, figuriamoci quando lo fa il tuo scrittore preferito!

Dieci anni fa ho cambiato città. E fin qui, chi se ne frega. Solo che cambiando città ho lasciato nella vecchia tutti i libri che avevo letto, e sono entrato in una casa in cui non c'era un libro mio. Quindi adesso, lì dentro, ci sono dieci anni di libri miei. [...] Le sere che ti annoi, passi a guardare i dorsi e, se hai voglia, è come ripercorrere pezzi della tua vita, basta lasciare che il gusto dei giorni in cui li hai tenuti in mano torni su: e lo fa, eccome se lo fa... (A.Baricco, La Repubblica)

domenica 30 ottobre 2011

This Must Be The Place


Spesso si resta immobili tanto a lungo da credere che quello che vediamo sia ciò che davvero abbiamo davanti al naso. Ma non è così. Non serve molto, qualche millimetro talvolta, può cambiare un intero punto di vista.
Dobbiamo essere grati a chi ci muove. Soprattutto a chi ci muove da dentro.
Cheyenne è una rock star cinquantenne in pensione ‘forzata’ da troppi anni. Vive a Dublino negli agi di una vita che gli consente di passare nell’ozio più totale le sue giornate senza il minimo bisogno di lavorare, e se la lascia scivolare addosso senza opporre la minima resistenza.


La sua è una routine quotidiana che si ripete da anni sempre uguale: si sveglia, fa la spesa al centro commerciale, prende un caffè con un amica, torna a casa e infila nel microonde una pizza surgelata, aspettando che cuocia seduto nella monumentale cucina che reca a caratteri cubitali la scritta cuisine, tanto per non sbagliarsi.
Tutto è noia per Cheyenne, che è caratterizzato, oltre al trucco-parrucco da rock star dura, di quelle che ‘spaccano’, da una vocina infantile dalla cadenza perennemente strascicata, e dal fatto di non riuscire a fare più di un metro senza doversi sorreggere a qualcosa, che sia il carrello della spesa o il manico della valigia.


Cheyenne è, insomma, la personificazione della monotonia. Una monotonia che fa terribilmente a pugni col suo aspetto da anticonformista, di quelli che vivono sempre sopra le righe. Un aspetto che lo tiene ancorato, nonostante il passare degli anni, ai tempi della gioventù. O meglio, dell’adolescenza, quando il suo modo di apparire aveva un solo significato: ribellione. Ora però Cheyenne è quanto di più lontano possa esistere da un ribelle: è un marito innamorato e fedele da oltre trent’anni, e da venti non prende più in mano uno strumento musicale, trascinandosi in giorni di tedio che lui scambia per disagio esistenziale, convincendosi di essere afflitto da una seria forma di depressione.


In realtà, quello che manca a Cheyenne, è una ragione per crescere. Perché lui, questa cosa del crescere, non l’ha mai affrontata, come confermano le sue unghie laccate di nero e il pesante strato di matita che ogni mattina, diligentemente, applica alle palpebre ormai cascanti da cinquantenne. Conciato in questa maniera spaventa le clienti del supermercato in cui ogni mattina si reca a fare la spesa, salvo poi vendicarsi bucando loro il cartone del latte, esattamente come farebbe un bambino.
La notizia della morte improvvisa del padre, a New York, cambierà le carte in tavola e per Cheyenne arriverà finalmente il momento di prendere in mano il proprio destino.
Giunto sul posto, infatti, l’ex Rock Star viene a sapere che il padre, per tutta la vita, aveva invano dato la caccia ad un tedesco che era stato il suo aguzzino nel campo di concentramento di Auschwitz, e , incomprensibilmente, vista la sua verve e le sue pressoché nulle capacità investigative, Cheyenne decide di portare a termine la missione.


Il viaggio che compirà lungo gli Stati Uniti sulle tracce di quest’uomo acquisirà valenza di viaggio interiore, per Cheyenne. Un modo per confrontarsi con realtà diverse, per affrontare i demoni del passato, per riconciliarsi con la memoria del padre, un padre che lui ha sempre creduto, a torto, incapace di provare dell’affetto per il proprio figlio.
E sarà costretto a crescere.
L’uomo che farà ritorno a Dublino, dopo questa traversata, sarà un vero uomo.
L’uomo che per anni si è rifugiato dietro la maschera del personaggio, crogiolandosi nella paura di crescere e affrontare la realtà.
Perché la vita vera è fatta di questo: di persone che affrontano la realtà, per quanto dura o dolorosa possa essere.
Di persone che arrivate ad un certo punto, lasciano andare il cordone di sicurezza (o il manico della valigia) e camminano da sole, a viso aperto.
Senza trucchi, senza inganni, maschere, ceroni e chi più ne ha più ne metta.
Perché bisogna crescere e andare avanti.
Questo è vivere.

Ho trovato questo film di una bellezza e di una poesia incredibili, e credo di non esagerare se dico che è veramente il film più bello visto da molti mesi a questa parte.
La storia, nella sua semplicità, è capace di toccare corde profonde e ti resta impressa dentro, affrontando tematiche diverse quali l’olocausto, il rapporto padre-figlio, il bisogno che abbiamo tutti di avere una ragione per cui vivere, qualcosa che ci spinga avanti.
Simpatizzare col personaggio di Cheyenne, poi, è cosa immediata: per quanto strampalato e lontano da ognuno di noi possa apparire, in realtà è un personaggio incredibilmente umano, che dispensa vere e proprie perle di saggezza nell’arco dell’intero film. Dei bambini ha conservato l’aspetto più limpido e pulito, quello stupore che gli permette di guardare ancora il mondo con incredulità e meraviglia, nonostante le disillusioni e gli errori accumulati negli anni.


Nel panorama del cinema italiano avevamo bisogno di un film così. Un film che si discostasse dalle commedie-pattumiera, dai cinepanettoni e i film comico-demeziali che ci travolgono a vagonate ogni benedetto anno.
Un film dalla regia brillante, fatta di dettagli suggestivi (il filo del telefono che si tende, la sigaretta che si consuma tra le dita, i primissimi piani sugli sguardi), di inquadrature mozzafiato sugli incredibili paesaggi USA, con una stupenda colonna sonora e sì, fatta anche di bravi attori, Sean Penn su tutti, che da solo regge praticamente tutto il film.


I difetti, naturalmente, non mancano. Alcune sequenze sono effettivamente troppo lunghe (penso alla scena in cui David Byrne canta, appunto, This Must Be The Place) o slegate tra di loro, rendendo la narrazione poco omogenea in alcuni punti.
Ma sono convinta che un film, prima di tutto, vada visto ‘di pancia’.
E Cheyenne, nella sua lentezza, nella sua iniziale incapacità di evolversi, staccandosi da un passato che non gli appartiene più, nelle sue peripezie, a tratti quasi oniriche (penso alla scena dell’indiano nel pickup), a tratti decisamente comiche, nelle sue mille espressioni, che poi in realtà è sempre la stessa, è bellissimo.
E questo film sa davvero emozionare, perché è intriso di umanità.


martedì 25 ottobre 2011

La scrittrice cucinava qui: Colette e la torta di zucca


Nulla mi rende di buon’umore quanto i regali di compleanno, specie se inaspettati.
Specie se fatti su misura.
Quando qualcuno regala un libro, è perché conosce una persona, o crede di conoscerla.
Se il libro è azzeccato, probabilmente anche l’idea che si ha di quella persona lo è.
Nulla ti smaschera quanto un libro.
Questo regalo di compleanno, decisamente azzeccato, è opera delle mie sorelle. Del resto, se non ti conosce una sorella…
Il libro si intitola ‘la scrittrice cucinava qui. gusti, ricordi e ricette di 10 grandi autrici’, e, lo confesso, devo ancora praticamente iniziare a leggerlo.
Ma l’idea mi intriga: dieci scrittrici (Virginia Woolf, Simone De Beauvoir, Elsa Morante, Karen Blixen, Agatha Christie, Grazia Daledda, Harriet Beecher Stowe, Gertrude Stein, Pamela L. Travers, Colette), dieci modi di interpretare il cibo. Perché cucinare è un po’ come scrivere: si dà forma a qualcosa, lo si insaporisce, lo si personalizza fino a raggiungere il gusto desiderato.
Quel piatto racconterà qualcosa, proprio come una storia scritta con amore.
Per ora, l’unico capitolo che ho letto con grande attenzione, è quello sulla scrittrice Sidonie Gabrielle, da tutti conosciuta come Colette.


Colette nutriva per il cibo una vera e propria forma di culto: lo venerava. Le radici di questa passione vanno ricercate nella sua infanzia campagnola in Borgogna, e nel rapporto di profondo affetto che la legava alla madre Sido. Colette cresce tra i densi profumi degli arrosti e delle conserve, delle scorze di limone e delle patate cotte nella cenere, nella grande cucina in cui luccicano le pentole di rame e il profumo del pane appena sfornato si sprigiona dall’antica madia. Sono i sapori semplici, quelli che predilige, quel gusto paesano, casereccio, che le mancherà come l’aria nella nuova vita chic che l’attende a Parigi, tra serate mondane e amicizie d’interesse, al seguito di un marito la cui indifferenza la renderà instabile e depressa.
Tra i doni che Colette erediterà da sua madre, oltre all’amore per il cibo e la cucina, c’è soprattutto quello per la natura: Sido elargisce alla figlia tutto il suo sapere su piante, frutti ed erbe, cosicché orti, boschi e prati non hanno più segreti per la giovane Gabrielle, che coglie pesche e prugne mature, estirpa carote novelle, sbuccia castagne e sguscia fave e piselli.
Più avanti negli anni, quando Parigi si chiuderà intorno a lei come una prigione dorata, piena di frivoli divertimenti e di donne che per essere alla moda si nutrono con una foglia di insalata al giorno, Colette si ammalerà di nostalgia per questi profumi e sapori perduti, e inizierà a scrivere proprio per riempire un vuoto, colmare quella voragine rimasta attaccata ad un passato profumato come una torta calda appena sfornata.
La torta di zucche e mandorle, il piatto forte di Sido, da Colette rimpianto per tutta la sua vita.



'La cucina, la vera cucina, è fatta di chi assaggia, assapora, sogna un istante, aggiunge un filo d’olio, un pizzico di sale, una foglia di timo, da chi pesa senza bilancia, misura il tempo senza orologio, sorveglia l’arrosto con gli occhi dell’anima e mescola le uova, il burro e la farina secondo ispirazione, come una strega benigna. E i luoghi dove ciò che si compie fra il momento di mettere la pentola sul fuoco, il bricco, la marmitta e il loro contenuto, e il momento, pieno di dolce ansietà e di speranza voluttuosa, quando si scoperchia sul tavolo il piatto fumante, sono mistero, magia, sortilegio.' (Colette)



Tarte aux citrouilles et amandes
(torta di zucca e mandorle)


Ingredienti per 6/8 persone
500 g di zucca
50 g di mandorle spellate
150 g di zucchero
2 uova
4 tuorli
1 goccia di estratto di vaniglia
100 g di polvere di mandorle
60 g di burro
6 cl di crema di latte
1 cucchiaino da caffè di rhum
Sale e pepe

Per la pasta sablé:
250 g di farina
75 g di zucchero
90 g di burro morbido
2 tuorli
1 bustina di vanillina
1 pizzico di sale
3 cucchiai di acqua freddissima

Lavora con le fruste elettriche i tuorli con lo zucchero, unire il burro a pezzetti e la farina setacciata, la vanillina, il sale e infine l’acqua. Lavorare con le fruste fino a ottenere una sorta di sabbia e poi proseguire a mano. Impastare fino ad avere un composto liscio ed omogeneo. Formare una palla da avvolgere nella pellicola e lasciar riposare nel frigo per almeno mezz’ora.
Nel frattempo sbucciare e tagliare a pezzi la zucca e farla cuocere a vapore per circa 20 minuti. Lasciarla raffreddare. Far tostare le mandorle sotto al grill del forno. In un pentolino mettere a scaldare la crema di latte con la vaniglia e far raffreddare. Stendere la pasta sablé in una teglia di circa 22 cm di diametro, coprire il fondo con una manciata di fagioli secchi e infornare per circa 20 minuti. Passare al setaccio la polpa di zucca e, in una ciotola capiente, mescolare insieme le uova, i tuorli e lo zucchero. Aggiungere la zucca passata, la polvere di mandorle, la crema di latte, il burro ammorbidito, il rum, un pizzico di sale e uno di pepe. Mescolare bene. Eliminare i fagioli dal fondo e aggiungere le mandorle tostate, versare l’impasto e rimettere in forno per 15 minuti circa. Servire fredda o tiepida.


domenica 9 ottobre 2011

Jane Eyre di Cary Fukunaga : non convince fino in fondo


Jane Eyre è il mio libro preferito. Probabilmente basta questo per rendermi ipercritica e particolarmente esigente nei confronti di quanto tratto e/o ispirato al suddetto romanzo, perciò vi avviso: non sarò imparziale in questo giudizio.
La Jane Eyre di Cary Fukunaga, sceneggiata da Moira Buffini, non mi ha convinto. Non fino in fondo.
Il film si fa vedere, indubbiamente, ed è particolarmente godibile per quanto riguarda ambientazioni e costumi: l’Ottocento inglese rivive in ogni singola inquadratura, in ogni, magnifico, dettaglio.
L’innovazione del regista, che segue pedissequamente il romanzo senza mancare una virgola, sta nell’averne spezzato la cronologia, ricostruendola con lunghi flash back. Si inizia con la fuga di Jane da Thornfield e con la sua sistemazione di fortuna a casa di St. John Rivers e, per tutta la prima parte del film si oscilla tra passato e presente.


Viene accennata l’infelice infanzia della protagonista, orfana dei genitori e allontanata dalla zia che avrebbe dovuto prendersene cura, ma che spinta dall’egoismo e dal disprezzo la fa rinchiudere nel rigido collegio di Lowood, famoso per la severa disciplina con cui vengono trattate le alunne. Qui c’è solo un rapido accenno all’amicizia che lega Jane ad Helen Burns, aspetto che invece meritava di essere approfondito per come fa risaltare quella che è l’essenza di Jane: il carattere indomito, la capacità di creare un legame profondo anche quando significa andare contro tutte le regole, l’estrema dedizione e la tenacia nelle proprie idee. Fukunaga non ci mostra che uno scorcio di questa parte piuttosto consistente di romanzo, e personalmente non condivido appieno questa scelta. Logicamente, qualcosa andava tolto, ma sembra che in fondo il regista abbia scelto di focalizzarsi unicamente sul rapporto tra Jane e Rochester, tralasciando tutto il resto.


E’ vero, Jane Eyre è anche una storia d’amore. Ma soprattutto è la storia di una donna di incredibile temperamento e indipendenza, assolutamente anticonformista per i tempi in cui visse. Una donna che non aveva nessuna di quelle qualità (soldi ed avvenenza) che, ai tempi, ma forse (tristemente) anche al giorno d’oggi, le permettevano di fare strada. Ma aveva un cervello e abbastanza tempra morale per non soccombere davanti agli ostacoli che la vita le poneva. Una donna che, messa davanti ad una scelta ‘scomoda’, preferisce perdere tutto pur di non perdere se stessa. E questo, credo sia il più grosso insegnamento che ogni ragazza, da duecento anni a questa parte, possa trarre da un personaggio del genere.
Ma torniamo al film.


L’arrivo a Thornfield e il conseguente inserimento come istitutrice (Istitutrice, traduttori, Jane è l’istitutrice, non la governante!) della piccola Adéle, pupilla e forse figliastra del signor Rochester, padrone della cupa ed isolata dimora, cambiano la vita di Jane. Come dicevo, le ambientazioni sono sublimi, ma davvero troppo, troppo cupe. Non bastano corridoi bui e candele dalla fievole fiamma a creare un’atmosfera gotica, soprattutto se poi si sceglie volutamente di tagliare le gambe a qualsiasi altro elemento di suspence all’interno della casa.
Sì perché Thornfield e il suo proprietario, che nel frattempo si è invaghito della piccola istitutrice, nascondono un terribile segreto, ma io credo che, senza aver letto il libro e aver visto altre versioni cinematografiche, sia davvero difficile capire che qualcosa si cela tra quelle tetre mura.


Dov’è Grace Poole, forse la presenza più inquietante all'interno del palazzo, che insospettisce e terrorizza Jane fin dall’inizio? La sua è una semplice apparizione nel finale. Così come la stessa Bertha, che si limita a qualche fioca risata. Non ci sono sguardi ambigui tra i domestici, ne strani avvenimenti scuotono l’equilibrio del palazzo, se si escludono l’incendio nella stanza di Rochester, che comunque passa molto in sottotono e l’aggressione a Richard Mason, anch’essa piuttosto sbrigativa.


La pellicola di Fugunaka perde completamente di mordente superata la prima metà. E questo appiattisce, a mio parere, anche l’avvicinamento tra Jane e Rochester.
Le scene sembrano spesso didascaliche. Non si avverte la passione, il senso del proibito, la tensione che intercorre tra di loro. La scena in cui, più delle altre, ho notato questo livellamento di emozioni è la scena della fuga di Jane dalla sala in cui Blanche sta intrattenendo Rochester con frivole chiacchiere e malignità nei confronti delle istitutrici. Lui la segue, ma tra loro non c’è quel sofferto e talvolta esasperato gioco del gatto e del topo che riempie di pathos il libro. Lui è fin troppo gentile e premuroso e lei fin troppo fredda.


Edward e Jane non sono così. Tra loro c’è una scintilla sempre sfrigolante. Lui la stuzzica e lei replica a tono, lui la mortifica e lei si chiude a riccio, lui la cerca e lei indietreggia. E’ un gioco al massacro. Lui ha un passato troppo doloroso alle spalle per riuscire a fidarsi totalmente. Si muove verso di lei con sempre maggior curiosità, ma fondamentalmente protetto dietro la superiorità del ‘padrone’. Lei è forte, ben decisa a non soccombere a questi attacchi sempre più frequenti, atteggiamento perfettamente esplicato nel discorso esasperato, furioso, che gli rivolge poco prima che lui si dichiari: ‘Credete che potrei rimanere e non essere più nulla per voi? Credete che io sia un automa, un meccanismo insensibile? Che possa sopportare di veder strappato di bocca il mio pezzo di pane? Di veder gettato via dalla coppa il sorso d’acqua che mi è necessario per vivere? Credete, perché sono povera, oscura, brutta e piccola che io sia senza anima e senza cuore? Vi sbagliate! Ho un’anima come voi e un cuore forse più grande del vostro!


Questo qualcosa traspare chiaramente nella versione di Zeffirelli del 96.
Forse anche perché, a mio parere, i due attori erano più ‘in parte’. Lei, Charlotte Gainsbourg, decisamente più ricca di espressione rispetto alla bellissima, ma piuttosto smorta Mia Wasikowska. Lui, William Hurt, poco adatto per via dei colori chiari, ma perfetto nell’atteggiamento cinico e fortemente ironico che riserva a Jane. E’ più gentiluomo del Rochester portato sullo schermo dal fin troppo bello Michael Fassbender, ma in qualche modo anche più ‘sbruffone’, una maschera per celare i demoni che vivono nella sua anima.
Adoro questo personaggio!


Per concludere questa recensione, che alla fine, come temevo, si è tramutata in un divagare senza sosta sul capolavoro di Jane Eyre, il finale è probabilmente la cosa che ho digerito di meno.
Buttato lì, un po’ così, tanto da lasciare chiaramente quella sensazione di voler ‘tagliare corto’.
Non mi sono alzata dalla poltrona del cinema esclamando ‘Wow!’, ne mi sono minimamente commossa o emozionata. Non è affatto un film da buttare, o da non vedere, anzi, ha sicuramente molti pregi. Ma la scintilla non è scoccata e, per questo, credo che ancora una volta la mia versione preferita resterà quella di Zeffirelli: per i personaggi, per le emozioni, per le ambientazioni, per le musiche (sublimi) e per l’incredibile e suggestivo uso dei chiari e scuri.
Perché le ombre non sono meno importanti della luce.

Il trailer è molto convincente. Peccato che alcune scene non compaiano proprio nel film...


venerdì 16 settembre 2011

Un tè con Proust: le petite Madeleines


Ok, alzi la mano chi, di fronte ad un profumo familiare, non ha mai sgranato gli occhi esclamando: “Questo mi ricorda proprio…”
E via con i viaggi nel tempo lampo. Quelli che, nella frazione di un secondo, ti riportano esattamente in un luogo e in un momento ben preciso della tua vita, ti ricostruiscono intorno ambienti e ti immergono in un’atmosfera dimenticata al punto che ti sembra quasi di sentire voci e rumori e percepire sotto le dita le trame dei tessuti o la superficie lucida di un tavolo…
Proust lo sapeva bene. Del resto, lui era un esperto di viaggi nel tempo, ci ha passato la vita. E la sua Recherche, è partita tutta da una madeleine...
Eh, già. Quando si associano profumi dimenticati e ricordi sepolti, non si può fare a meno di pensare a Proust, alla zia Leònie e ai suoi tè delle cinque con madeleines, cui il piccolo Marcel prendeva parte senza ancora sapere che un giorno, parecchi anni dopo, inzuppando distrattamente una madeleine nel tè sarebbe stato immediatamente catapultato a quei giorni dolci e spensierati della sua infanzia. E avrebbe deciso di scriverne. (per fortuna o purtroppo, dipende dai punti di vista! Quel che è certo è che aveva davvero molte cose da dire…!)
Credo che ognuno di noi abbia la sua madeleine. Per me, si tratta del profumo del gelsomino. Nulla come il profumo del gelsomino è capace di riportarmi indietro nel tempo, alla casa al mare in cui passavo le estati da bambina. Ce n’era una pianta che si arrampicava proprio intorno alla finestra della cucina, dando a colazioni e cene un sottofondo inconfondibile.
Ancora adesso, nonostante gli anni trascorsi, quando l’odore del gelsomino inizia a profumare l’aria, io torno seduta a quel tavolo, i piedi che dondolano e non toccano terra, mentre seguo con il dito il contorno dei quadretti della tovaglia di plastica aspettando che anche gli altri siedano.
Nulla è potente come gli odori. Non lo è la vista, ne il tatto. Persino l’udito, talvolta, viene meno.
Ma un profumo ti riporta esattamente dov’eri quando l’hai sentito la prima volta. Quando è diventato importante.
Le madelines originali prevedono una ricetta molto semplice, aromatizzata con essenza di fiori d’arancio.
Ma io ho voluto sperimentare (il che non necessariamente è un bene, dato che non sono una cuoca provetta, ma questa volta me la sono discretamente cavata!) con qualcosa di più elaborato, per il contest della dolcissima Federica (vi consiglio assolutamente di visitare il suo blog, soprattutto se amate i dolci stranieri, perché è una chicca, e lei davvero brava^^)
Così, eccovi le madeleines allo yogurt, cocco e gocce di cioccolato. Chissà cosa ne avrebbe pensato Proust?

Ricetta:
3 uova
100 g burro
100 g zucchero
100 g farina
30 g fecola
Mezzo cucchiaino di lievito per dolci
1 bustina di vanillina
50 g cocco
60 ml yogurt cocco
Gocce di cioccolato qb

In una terrina mescolare le uova, lo zucchero e la vanillina fino ad ottenere un composto chiaro e liscio (circa tre minuti con le fruste elettriche). Aggiungere il burro fuso (lasciato raffreddare) e continuare ad amalgamare. Separatamente setacciare la farina con la fecola e il lievito e mischiarla lentamente al composto. In ultimo aggiungere lo yogurt e le gocce di cioccolato.
A questo punto, io ho coperto la terrina con la pellicola e l’ho lasciata riposare un’oretta nel frigo. Il motivo è presto detto: per conferire alle madeleines la classica gobbetta, è necessario che subiscano uno shock termico freddo-caldo. Le mie non sono venute proprio perfette, ma…hei, era il primo tentativo! Sono sicura che alla zia Leònie non deve essere andata meglio con le sue prime madeleines…(Marcel questo non l’ha mai saputo però…)
Comunque, trascorsa un’ora, ho trasferito l’impasto nell’apposito stampino e ho infornato per 12 minuti in forno preriscaldato a 170°. (con queste doti ho sfornato 27 madeleines)
Et Voilà! Sono morbidissime!








Con questa ricetta partecipo al contest di Federica


Del resto, senza il connubio con il tè, la madeleine di Proust avrebbe certo perso quell'incredibile potere evocativo!

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...